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Alberto Acosta

L’economia nel suo labirinto

Collasso climatico e capitalocene, uno sguardo dall’America Latina e dai Caraibi

Da Ecuador Today Traduzione italiana di Giorgio Tinelli per Ecor.Network


Il mondo post-Covid: cambio di paradigma?


L’economia è a un bivio sempre più complesso. I problemi che l’assillano e le sfide che deve risolvere stanno diventando sempre più grandi e difficili da affrontare. E ciò che dispera è vedere come l’economia si è trasformata in una sorta di grande totem a cui si rende un omaggio permanente e sottomesso. Vengono messe in atto azioni per proteggerla, presentandole come alternative per cercare di risolvere proprio i problemi che l’economia, per come la conosciamo, provoca. Emergono così economie “sostenibili”, “circolari” o colorate: siano esse “verdi”, “blu”, “arancioni”, “viola” o come vogliono essere chiamate o dipinte, ma che, senza tralasciare alcune buone intenzioni, finiscono per non mettere in discussione l’essenza perversa dell’economicismo né tanto meno del capitalismo.

Insomma, servirebbe un’altra economia, non semplicemente una nuova denominazione per quella esistente. Un’altra economia pensata e sostenuta nella piena validità dei Diritti della Natura e degli inseparabili Diritti Umani, in questo caso strutturata e proiettata da e per la Nostra America. Un’economia per un’altra civilizzazione che inizi con il capire che non stiamo vivendo un semplice cambiamento climatico. Siamo di fronte ad un collasso climatico nell’ambito del cosiddetto “antropocene”, che in realtà dovrebbe essere considerato come un “capitalocene”, sostenuto dal “fallocene” e dal “razzismocene”.

È evidente che non sarà facile superare tante superstizioni e fallacie travestite da scienza. Dobbiamo superare sia le visioni miopi che le reticenze conservatrici e prepotenti che nascondono e proteggono vari privilegi. Ciò, di contraltare al messaggio dominante, non può nascondere il fatto che in tutto il mondo si continuano a costruire strategie di azione diverse e plurali. (1)


Dallo sviluppo sostenibile alla green economy


Ciò che ci interessa è sottolineare che, a seguito delle tante riflessioni sviluppatesi soprattutto a partire dai primi anni ’70, la preoccupazione ambientale è entrata in scena a livello globale. Come data di riferimento abbiamo il 1992, durante la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro. Così la “comunità internazionale” si propose di articolare un modello di sviluppo che tracciasse parametri comuni per garantire l’auspicata crescita economica, il tanto sospirato benessere sociale, includendo il benessere ambientale dell’Umanità. Il punto di partenza di questa decisione è il Rapporto Brundtland, redatto nel 1987, che confrontava lo sviluppo con le esigenze ambientali.

Proporre il soddisfacimento delle necessità del presente senza compromettere quelle delle generazioni future, è stato un cambiamento importante. Inoltre, è stato suggerito che l’uso delle risorse naturali può sostenersi nel tempo. Questo fu un punto di svolta per iniziare a riflettere seriamente sui limiti dello sviluppo tradizionale, dopo l’impatto provocato dal Rapporto del Club di Roma nel 1972. E infatti risultò evidente l’urgenza di rivedere il ruolo dell’economia.

Insomma, parlando di sviluppo sostenibile si è aperta la porta per cercare un equilibrio tra economia, società ed ecologia. Tuttavia, senza aver risolto la sfida di fondo, ciò che si è ottenne marcò un passo trascendente. La questione ambientale ha guadagnato terreno ma, allo stesso tempo – ed è ciò che preoccupa – si è aperta la strada al capitalismo verde, cercando cioè di risolvere i problemi attraverso una crescente mercificazione della Natura.

Da allora, il compito è stato quello di introdurre la questione ambientale nell’economia ma senza intaccarne l’essenza, né interiorizzare quegli elementi complessi che costituiscono il quadro entro cui si dispiegano i processi economici. Diamo un’occhiata ad alcuni esempi. Non sono state considerate le pesanti eredità coloniali o i livelli sproporzionati di consumo di risorse da parte di alcuni paesi, i quali sono anche i principali responsabili dei gas serra o dell’inquinamento da plastica, per citare solo due fonti di distorsioni: questioni ambientali sempre più complicate e preoccupanti.

Financo questo approccio alla questione ambientale, basato anche su soluzioni tecnologiche, non solo emargina quei gruppi umani – i popoli originari – che non sono integrati nei processi di modernizzazione capitalista, ma li considera quasi come i responsabili dei problemi, poiché sono additati persino quali “nemici del progresso”.

Le risposte economiche green, già in epoca neoliberista, apparivano quasi come la panacea per risolvere questi problemi sostenendo la crescita economica e la liberalizzazione del commercio, ignorando gli innegabili conflitti tra quell’economia, la giustizia sociale e la sostenibilità ambientale.


Le promesse irrealizzabili del capitalismo verde


Assumendo come validi i principi di un equilibrio tripartito, l’economia ambientale ha offerto e offre tuttora di assicurare una crescita economica permanente, risolvendo i problemi sociali in particolare la povertà e dà conto anche delle questioni ambientali: è questa l’essenza della “green economy”.

Utilizzando questo armamentario economico, si è raccolta la sfida di affrontare i disastri ambientali. Dalla politica fiscale, ad esempio, è apparsa la parola d’ordine “chi inquina paga”. Inoltre, per mettere in atto questo approccio, non c’è niente di meglio che assicurare le uscite dal mercato, stabilire dei prezzi “adeguati”, e quindi – garantendo ovviamente la proprietà privata – raggiungere i risultati di efficienza e sostenibilità proposti, come recita il messaggio dominante. Ciò si complementa con la fascinazione per la scienza e la tecnologia.

Neanche è stato preso in considerazione ciò che nel mondo rappresenta “il modo di vivere imperiale” (2), che è possibile soffocando la vita degli altri popoli e della Natura. Non si considerano le strutture patriarcali che soffocano la possibilità della piena vigenza dei Diritti Umani. Non c’è posto in queste considerazioni “verdi”, lo stesso approccio coloniale con tutte il carico storico che ne deriva, o i progetti estrattivi con la loro enorme distruzione di territori e comunità, o la stessa transizione energetica imprenditoriale che richiede sempre più minerali come il litio per continuare a gonfiare il mostro urbano esacerbato da milioni di veicoli elettrici privati… La green economy, insomma, cerca soluzioni ai problemi che emergono dal sistema capitalista che cerca di proteggere ma, accelerando la mercificazione della Natura, ha approfondito i due disequilibri: ecologico e sociale.

Come d’altra parte lo “sviluppo sostenibile”, la “green economy” è un ossimoro utilizzato per legittimare gli interessi dei gruppi di potere. I suoi limiti sono evidenti.


I limiti invalicabili dell’economia…


Ci sarà sempre chi sosterrà che il problema risiede nella mancanza di coerenza nell’applicazione delle misure economiche – che essi ritengono adeguate -, le stesse che peraltro sono presentate come tecniche. Cioè, carenti di giudizi di valore. Così i difensori dell’economia verde o ecologicamente responsabile o delle altre economie opportunamente battezzate o dipinte, argomentano chiedendo che le loro ricette siano approfondite e che siano rispettate appieno: ciò rappresenta l’ampliamento della logica di un’economia socio-ambientale di mercato.

A loro non interessa che questa richiesta sia cosa impossibile, perché quello che propongono è che la realtà si adatti alle loro teorie.

I risultati di queste pretese sono evidenti: l’accumulazione materiale – meccanicista e interminabile di beni – assunta come progresso, non ha futuro. Così come neanche ha futuro lo sviluppo, che è un derivato di tale progresso. I limiti degli stili di vita, sostenuti nel periodo di maggior fulgore antropocentrico, sono sempre più evidenti e preoccupanti.

Le origini profonde di una crisi plurifacetica, aggravata dalla pandemia sanitaria, sono facili da intravedere. Ne citiamo alcune.

Consumismo e produttivismo, tecnologie che accelerano l’accumulazione di capitale, stati sempre più autoritari, ambizione ed egoismo sfrenati, individualismo estremo trasformato in malattia sociale, fame di milioni di persone – non per mancanza di cibo -, estrattivismi sfrenati, flessibilizzazione/precarizzazione del lavoro, predominanza della finanza – specie nel suo trambusto speculativo – culto della religione della crescita economica permanente. Anche il coronavirus, per le sue origini zoonotiche, deriva dalla distruzione della biodiversità incoraggiata dall’avidità di ricchezza e potere.



Tutta questa complessità, da una prospettiva ecologica, è stata segnata dalla data in cui si è arrivati alla Sovracapacità della Terra, il 1° gennaio.

Il 28 luglio già si erano esaurite le risorse disponibili per il 2021.

Nel primo registro, nel 1970, fu indicato per il 29 dicembre, nel 2019 fu il 29 luglio e nel 2020, il 22 agosto.

La battuta d’arresto dell’Earth Overcapacity Day nel 2020 si dovette alla pandemia del Coronavirus. Si registrò tre settimane dopo rispetto all’anno precedente, cioè il 22 agosto, a causa del rallentamento economico, ma già nel 2021 siamo tornati sulla strada della normalità, che era una vera anormalità.

Di certo c’è un’enorme disuguaglianza tra i paesi. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno già raggiunto la loro “quota” il 14 marzo. In Europa, in Spagna il 25 maggio: quindi, se tutta l’umanità adottasse uno stile di vita simile a quello dello spagnolo medio, avrebbe bisogno di 2,5 pianeti per mantenersi.

In America Latina, questa pressione è meno drammatica, tranne nel caso del Cile, che è stato il primo paese dell’America Latina ad esaurire la sua “quota” 2021 e lo ha fatto il 17 maggio. In Brasile, Colombia, Perù, Venezuela, Messico, Argentina, Costa Rica e nel resto dei paesi, lo “scoperto” inizia più tardi.

In paesi come Cuba, Nicaragua ed Ecuador, l’eccesso di capacità viene raggiunto verso la fine dell’anno. Prendendo come riferimento l’indicatore delle emissioni totali questa regione è responsabile solo dell’8,3% delle emissioni globali; collocandosi vicino alla media globale, circa un terzo delle emissioni dell’Europa o degli Stati Uniti.

Tuttavia, questi indicatori – come molti altri – non sono sufficienti per rappresentare graficamente la gravità della situazione in America Latina.

Prendiamo, a mò di esempio, che il Centro e Sud America ha subito un drastico calo dell’89% di presenza di specie animali rispetto al 1970. La crescente distruzione delle loro foreste è più che preoccupante.

La perdita di quantità e qualità dell’acqua è un altro punto da considerare. La crescente scomparsa della biodiversità non può passare inosservata. Inoltre, America Latina e Caraibi sono particolarmente vulnerabili: gli effetti sull’equilibrio ecologico globale in altre parti del pianeta, ad esempio a causa del massiccio inquinamento nei paesi del nord o della perdita di permafrost in Siberia o della deforestazione in Africa o Asia, hanno un impatto sull’Amazzonia e questo a sua volta si ripercuote sul mondo intero.


La CEPAL (3) riconosce questa fondamentale asimmetria tra le emissioni e la vulnerabilità. Allo stesso modo, questo organismo delle Nazioni Unite evidenzia la gravità dei problemi sociali peggiorati nel bel mezzo della pandemia Covid-19, stimando che il numero totale dei poveri è cresciuto fino a 209 milioni alla fine del 2020, 22 milioni in più rispetto all’anno precedente. Evidenzia anche il peggioramento degli indici di disuguaglianza nella regione e dei tassi di occupazione, soprattutto delle donne.

Nonostante queste constatazioni, non si può comunque reiterare la maldestra conclusione che America Latina e Caraibi possono continuare sulla stessa strada di crescita economica ed estrattivismo sfrenato per cercare di raggiungere un fantasma che ha già causato danni terribili: lo sviluppo! (4)

Né si può cadere nella trappola delle soluzioni tecnologiche. Molte volte i miglioramenti raggiungibili con i progressi tecnologici si riducono solo a pochi spazi locali, soprattutto urbani. Le “società di outsourcing” (5), quelle dei paesi capitalisti metropolitani e anche gli spazi privilegiati nel sud del mondo, migliorano i propri livelli di sostenibilità ambientale e benessere sociale a scapito del sacrificio ambientale e sociale di altri territori. Parallelamente dobbiamo considerare le disuguaglianze socioeconomiche, tipiche del capitalismo.

Questo livello di barbarie esaspera sempre più il divario tra ricchi e poveri, deteriorando cibo, salute, istruzione e condizione abitativa delle attuali generazioni, cosa che limiterà le loro aspettative e opportunità per il futuro. Senza essere la causa dei problemi attuali, la pandemia di coronavirus, anche attraverso un accesso diseguale ai vaccini, ha esacerbato questa realtà. Tutti questi squilibri, per la loro origine, sono molteplici e crescono rapidamente, provocando processi sociali che travalicano i confini nazionali, ad esempio attraverso flussi migratori crescenti. Tutte queste dure realtà, d’altra parte, spiegano l’aumento dei livelli esistenti di repressione ed esclusione, con il conseguente deterioramento delle istituzioni politiche.

Stando così le cose, è fondamentale assumere la crisi socio-ambientale come parte di una crisi multifacetica, che configura chiaramente una crisi di civilizzazione, che comporta anche la ‘crisi del pensiero’: se siamo onesti e vediamo le soluzioni proposte a livello di governo e da quasi tutti gli organismi internazionali – il Vertice di Parigi 2015 è una mostra evidente di questa affermazione – è stata minata la costruzione – o anche la discussione – delle grandi soluzioni di cui il mondo sotto molti aspetti ha bisogno, soprattutto nell’ambito dell’economia.

L’impellente urgenza di pensare a un’altra economia (6)


In definitiva, è necessario avviare il discorso riconoscendo i limiti ecologici dell’ambiente che ci ospita, accettando che gli esseri umani siano parte della Natura e mettendo ugualmente in discussione il sistema di riproduzione del capitale come base di crescenti disuguaglianze socioeconomiche e culturali. Sintetizzando, è necessario considerare altri obiettivi e altre azioni.

Più dello stesso sarà sempre più del peggio.

Non si può in alcun modo ritenere che l’intero sistema economico debba essere immerso nella logica dominante del mercato, essendo numerosi i rapporti ispirati ad altri principi di indubbia importanza; ad esempio, la stessa solidarietà nell’ambito della sicurezza sociale o delle prestazioni sociali, oltre alle diverse forme di solidarietà e di relazione reciproca nelle economie dei popoli e delle nazionalità ancestrali.

Una riflessione simile potrebbe essere fatta per l’istruzione, la sanità, i trasporti pubblici, i servizi finanziari e altre funzioni che generano beni pubblici e comuni che non sono prodotti e che non si producono e regolano attraverso la domanda e l’offerta. A questo punto, per recuperare una delle tante lezioni della pandemia da coronavirus, la salute non può essere né un privilegio né una merce: la salute – completamente ripensata – è un diritto. Non tutti gli attori dell’economia, inoltre, agiscono motivati ​​dal profitto, né tutti i problemi saranno risolti con l’intervento statale.

Una gestione economica diversa e differenziante richiede il cambiamento delle altre dimensioni sociali, che non si limitano alla razionalità e alla qualità delle politiche sociali. La sua riformulazione deve fondarsi sull’efficienza oltre che sulla sufficienza e sulla solidarietà, rafforzando le identità culturali delle popolazioni locali (a partire dai quartieri e dalle comunità), favorendo l’interazione e l’integrazione tra i movimenti popolari e l’incorporazione economica e sociale delle masse differenziate.

Ampi segmenti della popolazione, tradizionalmente emarginati, passerebbero dal loro ruolo passivo nell’uso di beni e servizi collettivi a promotori autonomi di servizi sanitari, istruzione, trasporti, ecc., guidati dalla scala locale-territoriale; assumendo la sfida in ogni comunità.

Politicamente, questo processo formerebbe e rafforzerebbe le istituzioni rappresentative delle maggioranze dagli spazi locali, comunali e parrocchiali, espandendosi in cerchi concentrici fino a coprire il livello nazionale. Solo così si può affrontare il dominio del capitale e delle burocrazie statali, entrambe restie al cambiamento. Se in questa impresa si conta sull’appoggio consapevole e attivo del governo, tanto meglio, ma non si dovrebbe mai dipendere da questo. L’autonomia della comunità è vitale in questo processo.

Sotto una impostazione autocentrata, ciò implica un’emancipazione concertata a partire da una dimensione locale, spazio reale per l’emergere di veri contropoteri di azione democratica politica, economica, sociale, ambientale e culturale. Da esse si possono forgiare embrioni di una nuova istituzionalità statale, di una rinnovata logica di mercato e di una nuova convivenza sociale. Questi contropoteri sarebbero pilastri per materializzare una strategia collettiva che costruisca un progetto di vita in comune, partecipativa e solidale.

Ciò che deve rimanere chiaramente stabilito è che un’economia estrattivista, vale a dire principalmente esportatrice-primaria, porta solo a una situazione di prostrazione permanente e di crescente distruzione degli equilibri socio-ambientali.

Pertanto, sono necessarie strategie di transizione, da dispiegare mentre si continua ad estrarre risorse naturali in qualche modo portatrici della “maledizione dell’abbondanza”.(7) L’esito del suo superamento dipenderà dalla coerenza della strategia alternativa e, soprattutto, dal grado di sostegno sociale che avrà una strategia post-estrattivista. (8)


Questo ci spinge a superare la civiltà capitalista passando dall’antropocentrismo al biocentrismo. Una nuova civiltà non nascerà con una generazione spontanea, né sarà il risultato della gestione di un gruppo di persone illuminate. Si tratta di una paziente e determinata costruzione e ricostruzione, soprattutto a partire da ambiti comunitari, che inizi con lo smantellamento di vari feticci (a partire dal feticcio del denaro, del profitto, della crescita economica, tra i vari temi assunti come verità indiscutibili) e promuovendo cambiamenti radicali, anche cominciando da esperienze esistenti.


Questo è il punto. Abbiamo valori, esperienze e pratiche civilizatrici alternative, come quelle offerte dal Buen Vivir o sumak kawsay o suma qamaña delle comunità indigene andine e amazzoniche. (9) Oltre alle visioni della Nuestra America ci sono molti altri approcci ai pensieri filosofici in tutti i continenti in qualche modo legati alla ricerca di una vita armoniosa, scaturite da visioni filosofiche inclusive. Anche se sarebbe meglio parlare al plurale di buenos convivires, per non aprire la porta a un Buen Vivir unico, omogeneo, impossibile da realizzare, per gli altri. E questo sforzo di recupero di memorie lunghe nel mondo dei popoli originari, deve avvenire anche recuperando tutte quelle preziose letture e ancora vigenti letture e proposte formulate dalle varie teorie della dipendenza, superando – tra l’altro – il loro pregiudizio antropocentrico e modernizzatore.


Questo sforzo richiede anche il recupero dell’enorme potenziale del paradigma femminista, della preservazione e delle visioni decolonialiste.


Se non c’è spazio per le “avanguardie” che assumano una leadership privilegiata, non è neanche un compito che si possa risolvere esclusivamente nello spazio nazionale. La conclusione è ovvia, azione per tutti gli ambiti strategici possibili, senza trascurare il livello globale. (10)


Per l’America Latina è sempre più urgente un regionalismo autonomo espresso in altre forme di integrazione, che dovrebbe essere pensato come controegemonico, multidimensionale, solidale, autonomo ed autocentrato, non semplicemente focalizzato sul mercato mondiale.

Senza una società molto più egualitaria ed equa, è impossibile che funzioni pienamente l’economia, né i mercati, tanto meno la democrazia. Per questo è necessario riformulare l’essenza stessa dello Stato a partire da visioni e pratiche di equità, uguaglianza e plurinazionalità.


In breve, dobbiamo costruire – in chiave di un pluriverso – un mondo in cui possano stare altri mondi, senza che nessuno di loro sia vittima di emarginazione e sfruttamento, e dove tutti gli esseri umani vivano con dignità e in armonia con la Natura.


Note:


Alberto Acosta è un economista ecuadoriano. Compagno di lotte dei movimenti sociali. Professore universitario. Ministro dell’energia e delle miniere (2007). Presidente dell’Assemblea Costituente (2007-2008). Autore di diversi libri.

  1. Segnaliamo il libro di Ashish Kothari, Ariel Salleh, Arturo Escobar, Federico Demaria, Alberto Acosta (editori; con il contributo di 110 persone da tutti i continenti, Pluriverso – Un Diccionario del Posdesarrollo, ICARIA – Abya Yala (2019) , con Edizioni in Spagna (ICARIA), Perù – Bolivia (CooperAcción, CEDIB), Colombia (CENSAT), Italia (OrthotesEditrice) e Brasile (EditorialElefante). La prima edizione è stata dall’inglese: (2019), Pluriverse: A Post-Development Dictionary , Nuova Delhi: Tulik Books and AuthorsUpFront.Available at https://www.radicalecologicaldemocracy.org/pluriverse/

  2. Ulrich Brand e Markus Wissen (2021); Stile di vita imperiale. Vita quotidiana e crisi ecologica del capitalismo, Tinta Limón, Buenos Aires

  3. Consultare CEPAL (2020); “La emergencia del cambio climático en América Latina y el Caribe ¿Seguimos esperando la catástrofe o pasamos a la acción?” Disponibile su https://www.cepal.org/es/publicaciones/45677-la-emergencia-cambio-climatico-america-latina-caribe-seguimos-esperando-la

  4. A questo proposito, le riflessioni espresse in diversi articoli possono essere consultate nel libro Postdesarrollo – Contextos – Contradiciones – Futuros, a cura di Alberto Acosta, Pascual García, Ronaldo Munck (2021), UTPL – Abya-Yala

  5. La lettura di Stephan Lesenich (2019); La sociedad de la externalización, Herder Editorial, Barcelona

  6. Consulta i testi di Alberto Acosta e John Cajas Guijarro (2018); “Reflexiones sobre el sin-rumbo de la economía – De las “ciencias económicas” a la posteconomía”, Ecuador Debate 103 Magazine, CAAP, Quito, 2018 e (2020); “Naturaleza, economía y subversión epistémica para la transición”, nel libro “Voces latinoamericanas: mercantilización de la naturaleza y resistencia social”, a cura di Griselda Günther e Monika Meireles, Universidad Autónoma Metropolitana, México. Articolo disponibile su https://www.cadtm.org/Naturaleza-economia-y-subversion-epistemica-para-la-transicion

  7. Cfr. Acosta, Alberto (2009); “La maldición de la abundancia”, CEP, Swissaid e Abya – Yala, Quito. Disponibile su https://rebelion.org/docs/122604.pdf

  8. Consulta Acosta, Alberto; Marchio, Ulrich (2017); “Salidas del laberinto capitalista – Decrecimiento y Post-extractivismo”, ICARIA, Barcellona. Disponibile su https://www.rosalux.org.ec/pdfs/Libro-Salidas-del-Laberinto.pdf

  9. Cresce l’elenco dei testi che affrontano questo tema. Come riferimento si cita il libro dell’autore, El Buen Vivir Sumak Kawsay, , una oportunidad para imaginar otros mundos, ICARIA, Barcellona, ​​2013; Pubblicato anche in portoghese, francese, tedesco, olandese

  10. Cfr., ad esempio, in Acosta, Alberto e Cajas Guijarro, John (2020a); “Del coronavirus a la gran transformación – Repensando la institucionalidad de la económica global”, nel libro di più autori e di più autori: “Posnormales – Pensamiento contemporáneo en tiempos de pandemias”, a cura di Pablo Amadeo. Disponibile su https://www.academia.edu/43722890/Posnormales_ASPO








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