La voce delle donne in El Salvador e in America Centrale
1. Karka Valentina, María Elisabeth, Jeanine, Mireya, Luísa, Luz Clarita, Alejandra, Scarleth,….
La lista potrebbe continuare: sono le donne trans a cui è dedicato l’ultimo monografico realizzato da IM-Defensoras, appena uscito, dal titolo Transcender, el odio y la Sindemia, transfeminicidios contra defensoras y lucha por la justicia en Mesoanérica. (testo completo qui https://drive.google.com/file/d/1k9g_4RHfZlfT5P4-___Fd7wahMLcizN1/view?usp=sharing)
Il testo parte dalla definizione di sindemia, parola che identifica l’interazione di due o più “malattie”, che generano condizioni sociali ed ambientali che colpiscono la popolazione, causando maggiori danni rispetto alla semplice somma dei danni delle singole cause, prese in forma isolata. In questo caso, si prende in esame l’aumento della violenza, povertà e sfruttamento nei confronti della popolazione trans, aggravato dalla compresenza della pandemia Covid 19.
Sia nel 2017 che nel 2018 è stato registrato un femminicidio nei confronti di attiviste trans, nel 2019 due (il primo, quello di Jade Camila Díaz in El Salvador ed il secondo, quello di Bessy Ferreras in Honduras); nel 2020 ne vengono contabilizzati 11, nel 2021 9 e nei primi mesi del 2022, purtroppo, già 1.
IM-Defensoras individua nell’incremento dell’autoritarismo, l’indebolimento delle istituzioni democratiche e l’intensificazione delle politiche repressive e militariste (misure implementate anche con il pretesto di combattere il Covid !9) una delle cause della recrudescenza degli atteggiamenti omofobi nei confronti della popolazione trans.
Contemporaneamente, si assiste a maggiori iniziative pubbliche, da parte di gruppi fondamentalisti e dell’estrema destra, che si oppongono ai miglioramenti ottenuti nel campo dei diritti sessuali e riproduttivi, promuovendo esplicitamente l’odio contro le comunità LGBTQ+. Una prova diretta è l’approvazione nel mese di marzo di quest’anno, in Guatemala, dell’iniziativa di legge, la Ley 5272, che proibiva l’insegnamento dell’educazione sessuale a scuola, come qualsiasi accenno alle diversità sessuali, stabilendo che l’eterosessualità è l’unico atteggiamento che può essere considerato “normale”. Soltanto la pressione della società civile guatemalteca e internazionale ha fatto sì che il Congresso ritirasse questa iniziativa di legge, dichiarandola incostituzionale.
Il testo continua con l’elenco di tutti i transfemminicidi avvenuti in Centro America, dando un volto a ciascuna delle vittime e raccontandoci quanto sia ancora profondo l’odio contro la comunità trans.
2. Felicita Aquino, María González, Gloria Marina Flores López, …
Sono alcune delle donne coinvolte indirettamente nel Régimen de Excepción, proclamato la prima volta in El Salvador il 27 marzo dopo il fine settimana più cruento del secolo, già prorogato due volte (l’ultima il 25 maggio per altri 30 giorni). Da allora, circa 30 mila persone sono state arrestate senza che la polizia sia obbligata a presentare le prove a loro carico: la associazione internazionale Human Right Watch insieme a Cristosal (associazione presente in El Salvador da almeno 25 anni, in difesa dei diritti umani), hanno denunciato i gravi abusi subiti dagli arrestati. Lo stesso Movimiento de Trabajadores de la Policía ha denunciato pubblicamente di dover compiere una quota fissa minima di arresti giornalieri.
E sempre dal 27 marzo, sono le donne che, sotto il sole cocente o sotto una pioggia torrenziale, si recano fuori dei posti di polizia o delle strutture carcerarie dislocate nel paese centroamericano, per avere notizia dei propri mariti, fratelli, figli arrestati con l’accusa, gravissima, di par parte delle pandillas. Alcune di loro sono state costrette a dormire per strada, altre si riuniscono per raccogliere quattro soldi ed affittare un letto da condividere in un albergo improvvisato nel circondario. Quasi tutte portano con sé i figli piccoli, che non possono lasciare a nessun parente o amico; e sempre quasi tutte, dopo aver perso l’ entrata economica del parente arrestato, si ritrovano senza possibilità di impiego, neanche quello informale: secondo le ultime statistiche, la maggioranza dei lavoratori in proprio sono donne, spesso senza nessuna possibilità di regolarizzazione, svolgendo attività da ambulanti, nelle case a servizio; attività che non possono essere dichiarate a priori delittuose, ma che in questo momento di stato d’emergenza possono essere un buon motivo per un arresto. Felicita ha in mano, quando è stata fotografata, una borsa con scarpe e pochi indumenti per il figlio di 32 anni, arrestato il 25 aprile, nella piazza centrale di Zacatecoluca, dove eseguiva lavoretti per uno studio medico.
María González ha 63 anni, da giorni fuori del carcere di Izalco, con la speranza che liberino suo figlio, arrestato il 30 marzo, vicino al Parque Infatil di San Salvador.
Molte altre donne non sanno nemmeno dove sono trattenuti i propri cari, spesso sono costrette a permanere giorni e giorni senza nessuna informazione al riguardo.
La foto, come molte delle informazioni qui riportate, è tratta da
La gravità della situazione è dimostrata dall’Allerta urgente, proclamata da IM-Defensoras, in cui si denuncia che le madri ed i familiari in cerca di informazioni sui propri cari arrestati, sono costretti ad affrontare situazioni precarie, stigmatizzazione e rischi per la propria sicurezza.
3. Guadalupe Rivera, Maria Pineda, Marcelina García,…
Guadalupe, Maria e Marcelina sono le protagoniste apparse nell’articolo pubblicato su Internazionale n. 1457, del 22 aprile 2022. L’articolo è la traduzione di quello scritto da Valeria Guzmán e apparso su
El Faro, l’ 11 marzo di quest’anno. https://elfaro.net/es/202203/el_salvador/26061/Un-sindicato-de-empleadas-dom%C3%A9sticas-contra-el-hambre.htm.
É la storia del sindacato di collaboratrici domestiche sorto quattro anni fa a Tacuba, in El Salvador.
Guadalupe Rivera è una delle dirigenti storiche del sindacato, ha 49 anni, ed ha incominciato a fare la collaboratrice domestica quando ne aveva tredici: in pratica ha lavorato 36 anni senza mai essere messa in regola; è una delle tante cosiddette muchachas, che guadagnano tre dollari al giorno, 25 centesimi all’ora, per pulire, lavare, stirare e cucinare dalle sei del mattino alle sei di sera, spesso sette giorni su sette. A volte lavorano anche dodici ore al giorno. Nel 2020, durante la chiusura per la pandemia, suo marito ha perso il lavoro, ed è diventato più violento. Guadalupe ha deciso di separarsi, ora vive coi tre figli. A casa sua si tengono le riunioni del sindacato, per affrontare insieme le difficoltà e richiedere un salario più giusto. Per molte di loro il concetto di inflazione è complicato, ma la pagano sulla propria pelle e capiscono che la vita è ogni giorno più cara; alcune di loro sono costrette a portare con sé i figli più piccoli, non possono affidarli ad altri. Ma il senso do comunità e di aiuto muto non li abbandona, insieme riusciranno ad affrontare anche le difficoltà e gli imprevisti.
4. Esme e Jaqueline
Per la prima volta in 7 anni, un tribunale in El Salvador condanna una donna per emergenza ostetrica: il 9 maggio, un giudice ha condannato a 30 anni di prigione “Esme”, che, dopo aver affrontato un’emergenza sanitaria durante la sua gravidanza, invece di ricevere le cure mediche appropriate, è stata accusata dalla Fiscalia General e mantenuta in carcerazione preventiva durante il processo, dopo essere stata separata dalla figlia di 7 anni. Questa condanna è la prima durante il governo di Bukele, che in campagna elettorale aveva promesso di porre fine alla persecuzione sistematica di donne che si trovano di fronte ad emergenze ostetriche durante la gravidanza o il parto.
Il caso di Erme riflette ancora una volta il persistere della criminalizzazione delle donne che vivono in condizioni di povertà, senza nessuna possibilità di accedere a educazione ed a servizi nel campo sanitario, molto spesso vittime di violenza di genere.
Organizzazioni come la Agrupación Ciudadana por la Despenalización del Aborto hanno dichiarato di voler appellarsi alla Corte Suprema per cancellare questa sentenza ingiusta. La stessa Esme ha dichiarato di voler continuare a lottare per sua figlia e per la sua famiglia (1).
Intanto, il 19 maggio, fortunatamente, un altro giudice ha invece ridato la libertà a “Jaqueline”, condannata nel 2011 a 15 anni di carcere per tentato omicidio durante un parto extra ospedaliero.
Dopo 10 anni e 9 mesi, Jaqueline ha avuto giustizia, portando a 64 il numero delle donne che, grazie al lavoro instancabile del movimento femminista salvadoregno ed internazionale, hanno riottenuto la libertà, dopo essere state condannate a pene abnormi in un paese, El Salvador, dove l’aborto è ancora un reato punito con condanne severe, fino a 30-40 anni di carcere (2)
1. https://www.nodal.am/2022/05/el-salvador-condenan-a-30-anos-a-una-mujer-por-un-aborto-involuntario/
2. Sulla storia della lunga lotta contro la penalizzazione dell’aborto in El Salvador, leggere l’ultimo articolo apparso sulla Revista Labrujula https://revistalabrujula.com/2022/05/09/manuela-y-su-legado-a-las-mujeres-de-america-latina/
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