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Maria Teresa Messidoro

El Salvador: la fabbrica occupata diventa spazio femminista



La storia di 113 operaie che occupano la fabbrica Florenzi a San Salvador per esigere i propri stipendi e acquisiscono nuove consapevolezze di genere. Una storia molto latinoamericana.


2 minuti e mezzo per uniforme.

Tempo necessario per cucire l’uniforme, comprese le rifiniture e gli adesivi, stirarla e impacchettarla.

Significa 25 uniforme per ogni ora di lavoro.

Con otto ore di lavoro al giorno si arriva a 200 uniformi diarie.

Se ogni uniforme vale 5 centesimi di dollari si possono ricevere i 9,87 dollari previsti come paga giornaliera.

Quasi 140 dollari ogni 14 giorni, la paga pattuita.

Spesso consegnata in ritardo.


Ciascuna uniforme, marca Grey’s Anatomy Scrubs, sarà venduta su Amazon a circa 30 dollari.

La prima parte della storia qui raccontata in numeri si svolgeva in El Salvador, a Soyapango, un comune industriale dell’area metropolitana di San Salvador. Più precisamente nella maquila Florenzi, che lavorava per clienti come la BARCO (proprietaria dell’uniforme medica Grey’s Anatomy) o la Pierre Cardin. Spesso subappaltava lavori ad altre piccole imprese.

Con la Ley de Zonas Francas Industriales y de Comercialización, approvata durante il governo di destra di Calderón Sol nel 1998, in El Salvador, le industrie che si insediano in queste zone godono di privilegi fiscali, in cambio di offerta di mano d’opera a basso costo. Sono principalmente le maquilas che lavorano nel campo tessile per grandi firme: tra il 2015 e il 2019, in El Salvador, nelle 17 zone franche, vi erano impiegate annualmente circa 63 mila persone, in prevalenza donne. Con pochissimi diritti.


Soyapango, con un’alta concentrazione di maquilas, ha visto moltiplicare per sei la sua popolazione in due decenni, passando dai 43 mila abitanti nel 1971 ai 261 mila nel 1992. Secondo le previsioni per il 2020, la cittadina, che ha una superficie di appena 30 km quadrati, potrebbe arrivare ad una densità di 10 abitanti per kilometro quadrato.

Dal 8 luglio 2020 la Fabbrica Florenzi non è più una maquila. Ora è una fabbrica occupata dalle sue dipendenti; quelle donne che per anni hanno lavorato duramente otto ore per un salario minimo, ora passeggiano nell’installazione deserta che hanno reso temporaneamente propria. Le macchine da cucire, i fili ed i bottoni hanno cessato di essere materiale di lavoro per produrre camicette o altri capi firmati. La fabbrica si è trasformata in un accampamento, dove le 113 ex lavoratrici resistono per ricevere i compensi che spettano loro. La fabbrica rimarrà sotto il loro controllo fino a quando il padrone non pagherà loro l’indennità e i quattro mesi di salario; sennò, cercheranno di ottenere giustizia per via legale, anche se finora – nonostante le denunce, le richieste e l’occupazione dello stabilimento – il padrone non ha risposto.


Tutto iniziò il 18 marzo di quest’anno quando il presidente Nayib Bikele, allo scoppiare della pandemia, ordinò la chiusura totale delle 152 maquilas e call centers funzionanti nel Paese, per la loro alta concentrazione di lavoratrici. A differenza di Honduras e Guatemala, il lavoro delle fabbriche tessili non fu considerato essenziale, quindi questa chiusura ebbe come conseguenza un ritardo nelle consegne, una diminuzione dei guadagni sperati dai padroni delle maquilas: si presume che nel 2020 ci sarà una riduzione dei guadagni delle maquilas del 20%. Alcune di loro non hanno quindi rispettato i tempi di pagamento. L’industria Florenzi fu una di queste.


L’11 settembre, una cliente della marca Grey’Anatomy si congratula così: «Nel momento più difficile della pandemia a New York, sono riusciti ad inviarci le loro meravigliose uniformi per la squadra. Non potremo mai dimenticare ciò che hanno fatto per noi». Senza sapere cosa stava succedendo in una fabbrica come la Florenzi. Nella nascita della Florenzi, nel 1985, vennero coinvolte persone importanti della vita sociale e politica salvadoregna: nei primi anni, Carlos Humberto Henríquez, ex direttore esecutivo della Comisión Ejecutiva Hidroeléttrica del Rio Lempa, una impresa statale che genera energia idroelettrica, sfruttando le acque del fiume (il più grande di El Salvador) era il responsabile giuridico. Il padrone e rappresentante della Florenzi era Roberto Pineda, appartenente a una delle storiche famiglie oligarchiche, ex direttore del Club Campestre Cuscatlán, uno dei luoghi più esclusivi del Paese. È morto a giugno di quest’anno, lasciando in eredità la fabbrica al figlio, Sergio Pineda, che non si è mai presentato per una trattativa con le operaie, nonostante abbia dichiarato pubblicamente di averlo fatto almeno quindici volte; è sempre stato smentito dalle operaie.


La famiglia Pineda non ha mai pagato i 4 mesi di salario dovuti alle più di 200 operaie, né i contributi per gli anni di lavoro; in compenso ha offerto a loro una macchina da cucire, una Singer o una Brother, presenti nello stabilimento; sono macchine che nuove possono costare anche fino a 200 dollari, ma queste hanno almeno una decina di anni di usura. Quasi la metà accettò, ma 113 donne rifiutarono il compromesso: il loro salario mensile è il minimo salariale, 300 dollari mensili: secondo i loro calcoli, la Florenzi deve loro – solo per i salari non corrisposti – almeno 500 mila dollari. Nel 2018, secondo i dati ufficiali, gli utili della Florenzi sono stati 160 mila dollari. La multinazionale BARCO, nel 2020 (fino ad oggi) ha invece registrato introiti pari a 36 milioni di dollari.



L’occupazione è logorante, diventa pesante reggere la situazione, è indispensabile lavorare per pagare luce e acqua in casa, oltre a comprare il cibo. Contemporaneamente il silenzio del padrone demoralizza le operaie, alcune si arrendono, lasciano l’occupazione. Delle iniziali 113 sono rimaste in 106. Chi ha lasciato la lotta, non ha abbandonato le compagne: spesso passa portando qualcosa da mangiare, frutta o carne, magari un po’ di soldi… dei pochi che guadagna. L’occupazione della Florenzi non è soltanto la lotta di donne che combattono contro un sistema neoliberista in cui i poveri cuciono per pochi soldi ciò che i ricchi indosseranno. C’è un cambiamento sostanziale rispetto al modello di protesta operaia tipica dei movimenti sociali salvadoregni (e di tutto il mondo) del secolo scorso: questa occupazione ha assunto, con il passare dei mesi, una caratteristica di genere, diventando uno spazio femminista.


Adesso le operaie partecipano a seminari settimanali gestiti da organizzazioni femministe, come Ormusa, la Organización de Mujeres Salvadoreñas por la Paz; «come abbiamo imparato a rompere con i modelli di violenza, molte donne presenti in questa occupazione incominciano anche a capire che non sono oggetto né schiave della casa; perciò molti dei loro mariti non accettano la loro partecipazione a questa azione» afferma Nery Ramírez, una delle dirigenti riconosciute del gruppo. Ha 40 anni, ha lavorato 7 anni nella Florenzi, dopo essere stata licenziata in due altre maquilas dove aveva cercato di creare un sindacato, azione osteggiata dai padroni. Passa tutto il tempo lungo i marciapiedi davanti allo stabilimento, parla con gli avvocati, giornalisti e attiviste, coordina gli alimenti e gli aiuti economici che giungono dall’esterno. È la responsabile della disciplina, pronta a rimproverare chi non rispetta i propri compiti, si occupa delle operaie anziane, anche di quelle malate.

«L’altro giorno una compagna ci ha raccontato che per la prima volta ha avuto il coraggio di dire alla propria famiglia che non era la loro cholera, impiegata domestica; suo marito le ordinò di stirare ma lei si è rifiutata»; Nery ride mentre lo racconta, è consapevole che questa non è solo una battaglia legale per i propri diritti, è qualcosa altro che sta nascendo.

Finora, in El Salvador, la mobilitazione femminista si è incentrata nella lotta per i diritti riproduttivi: è molto sentito il problema dell’aborto, ancora oggi pesantemente penalizzato fino a trent’anni di carcere, per procurato omicidio.


La Colectiva Amorales, Ormusa e la Red de defensoras de los derechos humanos hanno incominciato questa estate a presentarsi davanti alla maquila Florenzi, diventando poco a poco le migliori alleate delle operaie. Le 113 donne impararono a organizzare la protesta, a mantenere chiuso lo stabilimento, entrando solo quando è strettamente necessario, per non procurare danni ai macchinari; poco alla volta hanno compreso il significato politico della loro presenza fuori di quella fabbrica dove sono state per anni soltanto numeri. Molte di loro finora non avevano mai sentito parlare di femminismo: «Per essere veramente femminista, bisogna essere preparate, per avere il diritto di nominarsi in questo modo: è un lungo lavoro di preparazione. Io posso dire che lo sono al 50%, mi manca ancora molto da imparare. Ma questa è una lotta femminista, ogni giorno che passa le operaie si stanno sempre più appropriando dei propri diritti, lottano e difendono non solo un posto di lavoro» sostiene Nery, a cui piace più che femminismo la parola sororidad, sorellanza.


Il 17 agosto un gruppo di operaie della Florenzi protestarono di fronte al Ministero del Lavoro salvadoregno; con microfono e cartelli, hanno bloccato il traffico nel centro della capitale, accusando il ministro Rolando Castro di proteggere gli interessi del padrone, non dei lavoratori. Fu così che i giornalisti “scoprirono” il caso Florenzi, mentre gruppi femministi, come il collettivo Majes Emputadas, erano in strada, solidarizzando con le lavoratrici.

Il ministro non le ricevette ma il 28 agosto rappresentanti delle occupanti della fabbrica, insieme a delegate delle organizzazioni femministe, furono ascoltate nella Commissione del Lavoro dell’Asamblea Legislativa, per denunciare il caso davanti a un gruppo di deputati.

Ora l’impegno è rafforzare le pressioni sul ministro per affrontare e risolvere il caso.

Sempre in agosto, uomini travestiti da poliziotti hanno cercato di portare via alcuni macchinari e il materiale ancora presente nella fabbrica, ma le donne non lo hanno permesso.

Il 22 settembre la Ministra de Vivienda (una sorta di ministero del Benessere Sociale), Michelle Sol, sotto pressione dei collettivi femministi e delle reti sociali, si impegnò a incontrare le lavoratrici della Florenzi, per ascoltarle. Non lo fece, in compenso pochi giorni dopo inviò esattamente 90 borse di alimenti, con l’equipe video del suo ministero, per dimostrare pubblicamente la donazione.


In questi quattro mesi le attuali 106 operaie delle 113 iniziali hanno presentato denunce alla Fiscalia, al Ministero del Lavoro, visitando uffici governativi e incontrando giornalisti. Per loro l’occupazione è una lotta, che comprende sicuramente l’aspetto legale contro i padroni della Florenzi. Però mentre resistono nei locali di ciò che fu il loro posto di lavoro, proteggendo quei macchinari che rappresentano la loro unica garanzia per ottenere giustizia, stanno costruendo uno spazio femminile totalmente nuovo per molte di loro. Sono donne sposate, madri ed anche nonne. I seminari a cui hanno partecipato hanno permesso di scoprire la propria identità in quanto donna, i propri diritti e le proprie necessità. La maquila è diventato un luogo amorevole e confortevole, molto di più della loro casa.


Davanti alla Florenzi, tutti i giorni, alle 5 della mattina, en la madrugada, le donne incominciano ad organizzarsi, a preparare la colazione. Chi termina il suo turno chiama un taxi, uno di quei pochi che le pandillas permettono arrivare nei loro quartieri. Quelle che rimangono, accendono il fuoco, si lavano, conversano tra di loro. Più riposate, le donne presenti sorridono e parlano a voce alta.

«Imaginese. Immaginatevi. Che tutto questo sia nostro. Cosa potremo farne?».

La risposta è chiara: «La faremmo funzionare come sappiamo fare».

Perché la fabbrica già sembra loro, l’hanno capito.

E conquistato. (1)


Note:

1. In questi articoli la storia completa dell’occupazione della Florenzi

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