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  • Maria Teresa Messidoro

El Salvador: dopo dieci anni di giustizia per Manuela

La Corte Interamericana de Derechos Humanos condanna El Salvador e ordina riforme urgenti nel Paese affinché le donne non siano più criminalizzate per emergenze ostetriche


21 novembre 2019, due anni fa.


Casa de Mujeres en el camino, dalla privazione della libertà a un progetto di vita.


San Salvador


Insieme ad altre donne di Lisangà e della comunità rurale di San Francisco Echeverría (1) ho avuto la fortuna di incontrare Teodora Vásquez, una delle 17 donne divenute simbolo delle palesi ingiustizie perpetrate dal governo salvadoregno in materia di aborto, considerato reato in qualsiasi caso dal 1998, quando è stata promulgata una legge che ha reso El Salvador uno dei pochi Paesi al mondo con una legislazione restrittiva nei confronto dell’aborto. Si corre il rischio di subire pene fino a trenta-quaranta anni per tentato omicidio o omicidio aggravato in casi di emergenza ostetrica. Fra il 2010 e il 2019 sono stati registrati 181 casi di donne criminalizzate per questo “delitto”.


Teodora ne è un esempio: condannata a 30 anni nel 2007, dopo dieci anni verrà liberata grazie ad una sentenza della Corte Suprema de Justicia.




La storia di Teodora mi entrerà nel profondo, così come quella di Carmen, Imelda, Sara. (3)


27 Febbraio 2008


Ospedale di San Francisco Gotera, provincia di Morazán, El Salvador


Manuela (nome di fantasia) è una ragazza che vive in una delle tante zone rurali di El Salvador, non sa leggere né scrivere e vive in condizioni di estrema povertà. Ha due figli, rispettivamente di 9 e 7 anni, è capofamiglia, perché da tempo il suo sposo l’ha abbandonata. Non ha mai potuto accedere all’educazione formale, né a informazioni o servizi di salute riproduttiva, non conosce né usa metodi anticoncezionali. I suoi due figli sono nati in casa. Tra il 2006 e il 2007, Manuela incomincia ad avere costanti mal di testa, nausea, dolori di stomaco e stanchezza, e presenta piccole masse ma ben visibili sul collo. Nell’Unidad de salud più vicina la diagnosi è gastrite, nessun esame viene prescritto. In quel periodo Manuela rimane nuovamente incinta.


Il 27 febbraio 2008, incomincia a sentire un gran dolore, si incammina verso il bagno, fuori della casa, ma in quel mentre espelle un feto e sviene. I familiari la trasportano all’ospedale più vicino, cioè a due ore di distanza. Manuela giunge all’ospedale sanguinante e in stato di nervosismo per non avere più il bambino che aveva appena dato alla luce. I medici che l’accolgono si rivolgono immediatamente alla Fiscalia e la fanno arrestare; pochi mesi dopo, Manuela, anemica e colpita da preeclampsia, viene condannata a 30 anni di prigione per omicidio aggravato. Morirà nel 2010, incatenata ad un letto nel padiglione carcerario dell’Hospital Rosales a San Salvador, per un tumore linfatico, diagnosticato tardivamente.


Aveva trentatré anni.



Il Centro de Derechos Reproductivos e la Colectiva Feminista para el Desarollo local, insieme alla Agrupación Ciudadana para la Depenalización del Aborto, presentano nel 2012 una istanza alla Comisión Interamericana de Derechos Humanos (CIDH) , sottolineando l’atteggiamento maschilista dello stato salvadoregno, un sistema di salute che condanna una donna giudicata immorale, per non aver rispettato lo stereotipo di doversi sacrificare in nome della riproduzione. L’impegno per rendere giustizia nei confronti di Manuela è costante, come lo dimostrano i numerosi appelli della Red Defensoras Derechos Humanos El Salvador e la realizzazione del film “Yo soy Manuela”, terminato quest’anno.


Foto tratta dall’articolo Película “Yo soy Manuela”: una búsqueda de justicia para las mujeres (4)


Nel giugno 2019, la CIDH decide di sottomettere il caso alla Corte Interamericana de Derechos Humanos (IDH)


Novembre 2021


E giustizia è ottenuta: infatti, con una sentenza storica, importante per El Salvador e per tutta l’America latina, la IDH ha dichiarato lo stato salvadoregno responsabile delle violazioni dei diritti umani di cui Manuela è stata vittima, come conseguenza della retrograda legge che proibisce ancora l’aborto. Inoltre, la Corte ha stabilito che El Salvador in questo caso ha violato la garanzia del segreto professionale, con un atteggiamento di pregiudizio nei confronti di Manuela, e ha decretato che il personale medico non dovrà mai denunciare quelle donne che si presentassero in ospedale per ricevere attenzione medica nel campo della salute riproduttiva, incluso l’aborto.


La sentenza ha un valore non solo simbolico per tutta l’America Latina, dove, d’ora in avanti, nessuna donna potrà essere denunciata per presunto delitto di aborto; introduce inoltre un precedente nella lotta contro gli stereotipi di genere, come quello che impone alle donne un atteggiamento conforme al suo istinto di maternità e suggerisce l’utilizzo di protocolli adeguati per garantire servizi sanitari accessibili e di qualità, soprattutto per le donne più povere e quindi più vulnerabili.


Per ciò che concerne El Salvador, oltre alle misure generali indicate sopra, lo stato dovrà risarcire integralmente la famiglia di Manuela, realizzare modifiche legislative e stabilire politiche pubbliche per non ripetere casi come questo; infine dovrà realizzare un atto pubblico di riconoscimento delle proprie responsabilità, in accordo con le vittime.


Come ha affermato la studiosa latinoamericana Rita Segato, poco prima della diffusione della sentenza della IDH, “E’ barbarie pura ciò che è successo a Manuela, miseria e vergogna agli occhi di tutto il mondo. Manuela ha incarnato ed incarna la stessa nazione salvadoregna. Manuela, a causa dell’abbandono da parte dello Stato, per la sua morte ingiusta e la sofferenza estrema e inenarrabile che ha patito, è veramente El Salvador” (5). Che le tante manifestazioni per non far cadere nel silenzio il caso di Manuela, siano servite a creare un futuro diverso per altre giovani come Manuela in El Salvador (6).


Foto tratta dall’articolo Manuela mujer que enfrentó emergencia obstetrica…


Per non morire a trent’anni per una legge maschilista ed ingiusta.




Note:

  1. E’ il villaggio, frazione della città di Tejutepeque, nella provincia di Cabañas di El Salvador, con cui Lisangà lavora da sempre in progetti di scambio e solidarietà.

  2. La storia di Teodora e di altre donne accusate di procurato aborto raccontata qui Yo soy Teodora yo soy Carmen, di Maria Teresa Messidoro, luglio 2020, produzione in proprio. Recensione in Bottega qui http://www.labottegadelbarbieri.org/yo-soy-teodora-yo-soy-carmen/

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